Recensione al libro di Giovanni Stanghellini “Alle cose stesse. Monologhi sulle forme del corpo e dello spazio”, Quodlibet, Macerata, 2024.

Alle 5,30 del 12 luglio del 2023, un anno fa, un rogo di fiamme gigantesche ingoia la “Venere degli stracci”, opera di Michelangelo Pistoletto, installata appena quindici giorni prima nella grande piazza Municipio,  il cuore di Napoli più aperto all’incontro tra il passato e il futuro. La macabra colonna di fumo, denso e nero, rimane visibile da diversi punti della città. In serata viene fermato un uomo di 32 anni, originario della periferia nord, un individuo senza fissa dimora, romantico viandante o emarginato schizotipo a seconda delle prospettive. La statua, in vetroresina, alta 7 metri, con lo sguardo rivolto al mare e il dorso alla città, si scioglie completamente. Della montagna di stracci rimangono un cumulo di cenere ed una struttura cupolare metallica di sostegno, che ricorda quei telai bombati su cui le nostre nonne mettevano ad asciugare i panni (gli stracci…) sui bracieri. La statua viene reinstallata nello stesso punto e con lo stesso formato il 6 marzo 2024, dopo mesi di aspre polemiche. Il piromane, un ragazzo emarginato(si) da anni, sensibile e dall’esistenza inquieta e senza patria, dalla galera viene ospitato in una struttura comunitaria dove, con simpatia di popolo (e dello stesso Pistoletto), finalmente inizia il suo percorso di riabilitazione e di cura. Questa storia ha molteplici letture. La mia è la seguente: un’opera fortemente distonica, che accosta Venere, dea della bellezza e dell’amore, ad un cumulo di stracci, non riscuote la simpatia della città. Napoli ha troppe statue classiche di marmo (autentiche) negli scantinati per emozionarsi della copia in vetroresina (gigante) di una copia (piccola, 1967), in cemento, di una Venere oltretutto neoclassica. Inoltre, l’anima “lazzara” e “stracciona” della città si offende a vedersi così crudemente e macroscopicamente rappresentata. Simone Isaia, una vita alla deriva, incendia la “Venere degli stracci”, probabilmente solo bisognoso di attrarre attenzione su di sé, oppure preda di un delirio purificatorio decontaminante. Dal rogo della Venere la sua stessa esistenza, paradossalmente, si salva, perché, resasi finalmente visibile, viene affidata alla cura e, dato il clamore mediatico, alla premura delle istituzioni. Di fatto la sua vita, simbolicamente, è l’unico “straccio” che sopravvive al rogo con un mutato destino. Mai come in questo caso gli “stracci”, esecrati da tutti e andati in cenere, hanno compiuto un prodigio salvando un essere umano e restituendolo alla vita della comunità.  Inoltre egli ha agito, e qui non so con quanta consapevolezza, quello che molti napoletani avrebbero voluto fare, me compreso: distruggere un’installazione artistica francamente irritante. La Venere stessa, inoltre, bruciando, è entrata nel ciclo del consumo, vitale e disperato, della città. Da “ecomostro” e “pugno nell’occhio”, fatto con materiale vile, occupante spazio su una “piazza salotto buono”, essa è diventata l’icona del riscatto della città. Quasi che, attraverso il rogo e rinascendo, come la Fenice, dalle sue ceneri, si fosse meritata di essere la “metafora viva” di una Napoli antica ed eterna, miserabile e nobilissima. Ho scelto di cominciare questa recensione con l’evocazione di questa vicenda, tutta napoletana, per alcuni motivi pregnanti. Il primo è che Napoli è l’unica città a cui è dedicato il primo, bellissimo, dei sette monologhi di Stanghellini, “Soglia”, in cui egli si immagina flaneur con Walter Benjamin nella Napoli degli anni Venti (“per certi aspetti non troppo diversa dalla attuale”) “città porosa”, dove uomini e pietre appaiono in brulicante continuità ed in continua trasformazione, in drastica opposizione a Berlino, città-caserma, prigioniera del grigiore di geometrie inflessibili. Il secondo è perché questi monologhi girano, tutti e sette, intorno ai due elementi antimerici e giustapposti propri di quest’opera di arte povera: l’eternità della bellezza e il dolore degli stracci. Questa mia, ora, mi tocca dirlo, non è proprio una recensione “neutrale”. Conosco Giovanni Stanghellini da troppi anni, siamo stati allievi degli stessi Maestri, ed abbiamo, nella diversità dei nostri percorsi (e delle nostre città di origine, Napoli e Firenze…), confluito i nostri intenti nella realizzazione di un sogno: la fondazione di una Scuola di Psicoterapia Fenomenologica, approvata dal MIUR, che strappasse la fenomenologia clinica alla clandestinità in cui l’aveva relegata la storia. Chiarito questo, credo però di poter stare nella posizione giusta per indicare al lettore alcune chiavi di volta di questo testo, da una prospettiva, per così dire, “side-by-side”, proprio come quella che reclama Giovanni, rispetto ai suoi pazienti, come punto di partenza di questa scrittura. Non mi soffermerò pertanto sulla novità dello stile di Giovanni (siamo di fronte ad un battitore libero, che ci ha abituati da tempo alle sue sortite e ai suoi scatti in avanti), ne’ sul flusso di coscienza, né sulla possibilità di una lettura meditata, quasi salmodiata, passo per passo, vista la immane ricchezza di dotti riferimenti. Tutto ciò è vero, ed è stato detto in splendide presentazioni del testo reperibili e godibili su youtube. La prospettiva che propongo qui è un’altra, ed quanto meno paradossale: questi monologhi, che potrebbero apparire l’impennata più soggettiva e personalistica di un Autore nel pieno della sua maturità, che non deve più dimostrare nulla a nessuno, sono, invece, quanto di più “oggettivo” possa esistere, se rapportati al contenuto che essi vogliono esprimere: il fluido e labile confine tra la forma e l’informe. Può sembrare strano ciò che sto dicendo, pertanto cerco di articolarlo in maniera più chiara. Questi monologhi sono, in realtà, degli “eterologhi”. Giovanni qui non si rende protagonista di una acrobatica trasposizione dentro l’altro, cioè di una “impersonazione” nell’altro, come potrebbe fare un attore di teatro, o uno scrittore. Giovanni, al punto finale di una serie di radicali messe tra parentesi, diventa il ghost writer di alcuni “situativi vissuti”. La sua mano ha trascritto, a tratti poeticamente, la prosa del mondo, l’affanno di alcune parabole esistenziali esemplari, il loro inesausto anelito alla bellezza, ma, soprattutto, ricorrendo all’espressione folgorante che Virgilio mette sulle labbra di Enea, Giovanni ha dato voce alle lacrime delle cose. E lo ha fatto nell’unica maniera possibile, quindi la più oggettiva. Non c’è altro modo per trasmettere a qualcuno “la catastrofe del vivente nel vissuto”, come scriveva Federico Leoni. Questo testo è, in definitiva, il più “fenomenologico” mai scritto da Stanghellini, nella misura in cui egli riesce a mettere in parole sequenziali e non necessariamente logiche, le spietate, ma anche irrinunciabili, raffiche della vita, nelle quali alitano l’amore, la morte, la carne, il mistero, la perdita, la miseria e l’infinito. Nessuna parola, in questo testo, è messa a caso: ognuna sgorga al punto preciso in cui l’impulso impatta il pensiero, la riflessione il preriflessivo, la figura lo sfondo o, come dicevo prima, la forma l’informe. La materia metafisica (poiché non registrabile numericamente e quantitativamente), che costituisce l’esperienza umana e, segnatamente, l’esperienza psicopatologica, viene impressionata e sottratta all’oblio da Giovanni Stanghellini, emulsionata in un film di parole che resiste ad ogni sistematizzazione, e che ad ogni rilettura, come ad ogni annusata di un profumo o degustazione di vino, anche dello stesso profumo e dello stesso vino, libera essenze diverse, cose diverse o, nei termini della neue Phenomenologie di Hermann Schmitz, quasi-cose diverse (almost-things/halb-Dinge). Lo sfondamento della impostazione fenomenologica classica, effettuato da Stanghellini in questo testo, consiste nel non applicare più, dopo l’epochè, una riduzione trascendentale che mostri, in trasparente filigrana, la struttura apriorica delle “cose”, ovvero la loro spaziotemporalità; ma nel lasciare andare il fluttering della viva carne, ottenuto grazie ad una radicale sintonizzazione (attunement) e trascriverne l’aritmicità, la dissincronia, la distopia, evocarne l’atmosfera, trasmetterne il pathos, lasciarne insatura la polisemia. Non si tratta, qui, di un’operazione letteraria, né di un’operazione filosofica. Senza nulla togliere alla validità di suddette operazioni. Ma mi preme sottolineare l’enorme valore clinico e didattico di questa esperienza di scrittura. Questo testo, in altri termini, rappresenta un exemplum virtuoso di ciò che dovrebbe accadere, nel silenzio del dialogo, tra un clinico fenomenologicamente impostato ed un paziente, che si intercettano prima della loro dualità, in quella zona della vita prossima alla sua dissolvenza, laddove l’uno è finito nel gorgo e l’altro ha paura di entrarci. Questo di Giovanni è l’autentico discorso che soggiace ad una buona psicopatologia fenomenologica. Come quando Binswanger scriveva che solo la musica di Debussy poteva rendere la luce del sole che indugiava, nel segreto del bosco, tra le fronde dei faggi. Finora abbiamo pensato, tutti, che il livello di trascrizione psicopatologico fosse il più vicino possibile all’esperienza originaria vissuta dal paziente. Adesso ci rendiamo conto, dopo questo testo, che il discorso psicopatologico, ancorché fenomenologico, è già posticcio rispetto alla vividezza eruttiva del fenomeno. Sarebbe bello, certo, auspicabile, poter “prescrivere” ai giovani clinici, senza mezzi termini, questo approccio. Esso, tuttavia, non è un punto di partenza. Richiede la raccolta di molti stracci, per molti anni, la loro decomposizione, e la loro riedificazione. Forse, soprattutto, richiede di andare a bottega da uno chiffonier, che secondo Giovanni incarna la figura dello psichiatra del futuro. Questo libro dimostra, dalla prima all’ultima delle sue pagine, che questa via è percorribile. Che questo contatto, ironico e leggero, elegante e raffinato, passante come carezza di vento sul pelo del Maelstrom, è possibile. Forse anche di più: che è “scientifico”. E di questo, io personalmente, Giovanni, ti ringrazio senza fine.  

Gilberto Di Petta

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