L’editoriale

L’Istituto di Psicoterapia Fenomenologica e Fenomenologia Clinica, autorizzato dal MIUR a formare psicoterapeuti (psicologi e medici) ad indirizzo Fenomenologico – Dinamico, affonda le proprie radici nella tradizione  della psicopatologia fenomenologica europea, che ha tra i suoi padri Karl Jaspers, Ludwig Binswanger, Erwin Straus, Eugène Minkowski, Ernst Kretschmer, Victor von Gebsattel e Kurt Schneider, e tra i più celebri rappresentanti di seconda generazione Hubertus Tellenbach, Alfred Kraus, Arthur Tatossian, Ronald Laing, Wolfgang Blankenburg e in Italia Danilo Cargnello, Ferdinando Barison e Bruno Callieri.  I fondatori della nostra Scuola, tra i quali si annoverano, oltre allo stesso Callieri, Arnaldo Ballerini, Lorenzo Calvi e Giovanni Gozzetti, sono tra gli eredi diretti di questi maestri. Nel corso degli ultimi quarant’anni hanno provveduto a trasmettere ad almeno due generazioni di psichiatri e psicologi italiani – mediante i loro scritti, le loro lezioni e, per i loro collaboratori, tramite l’esempio clinico –  un incomparabile tesoro di sapere, oltre che i principi del metodo fenomenologico. Nel corpo docente del nostro Istituto sono rappresentati, oltre a tutti i maestri ancora in attività, i principali allievi di questa tradizione scientifica e culturale che hanno avuto il merito di conservare, e far conoscere in Italia e all’estero, questo patrimonio di esperienza e di pensiero nei contesti della pratica clinica e della ricerca.

La psicoterapia fenomenologica si caratterizza innanzitutto per la raffinata competenza psicopatologica. La psicopatologia, in particolare quella fenomenologica, fornisce lo sfondo sia dottrinale, sia metodologico per la prassi clinica, e per quella psicoterapeutica in particolare.

In quanto corpus organico di conoscenze relativo alle forme e ai modi in cui si manifesta la patologia mentale, la psicopatologia fenomenologica offre una dettagliata descrizione dei fenomeni psichici abnormi – come il delirio, le allucinazioni, le fobie, le ossessioni – di cui si compone la patologia mentale, rigorosamente colti come vissuti e analizzati a partire dall’ottica del paziente. Offre, inoltre, un’articolata galleria di tipi di esistenza “mancata” – come ad esempio lo schizoide, il melancolico, il sensitivo, il fobico, l’ossessivo –  che possono fungere da bussola nell’esplorazione, nella comprensione e nella cura dei mondi psicopatologici incarnati dai singoli pazienti.

La psicopatologia fenomenologica, inoltre, rappresenta un’imponente risorsa metodologica. Gli autori che hanno contribuito a questa tradizione si sono posti in maniera radicale il problema di come, ed entro quali limiti, sia possibile accedere ai vissuti dell’altro, comprenderne il senso, e ricostruire le strutture portanti dei mondi entro i quali tali vissuti sono situati. Questo processo di conoscenza dell’altro si sforza di neutralizzare ogni forma di seduzione retorica del paziente operata facendo leva sulla asimmetria epistemologica che tra clinico e paziente, ponendo criticamente in evidenza ogni preconcetto e presupposto teorico.

La relazione terapeutica fenomenologicamente orientata presuppone, dunque, una forte competenza psicopatologica, che tuttavia evita di cristallizzare il paziente in uno schema diagnostico, restando aperta e modificandosi in rapporto alla individualità storico-clinica del paziente e alle sollecitazioni della relazione. E’ proprio questa radicale disponibilità del clinico a problematizzare nel contesto della relazione le proprie conoscenze psicopatologiche a caratterizzare la prospettiva fenomenologica. Il dialogo terapeutico, infatti, è reso possibile da una dialettica circolare tra le conoscenze psicopatologiche e la loro neutralizzazione tramite la pratica dell’epoché; in questo modo il vissuto del paziente viene recepito e messo in risonanza con le emozioni del clinico, oltre che con le sue conoscenze. Il vissuto del paziente viene continuamente riesaminato e rimesso a fuoco, trasformato in immagini, elaborato in concetti, messo in rete con altri fenomeni che popolano il campo di coscienza del paziente e del clinico, organizzato in “descrizioni dense” a partire dalle quali inizia a generarsi la rappresentazione e il racconto di un mondo dotato di senso.

I CARDINI DELLA PSICOTERAPIA E DELLA CLINICA FENOMENOLOGICA

I cardini della fenomenologia clinica e della psicoterapia fenomenologica, in estrema sintesi, possono essere riassunti nei punti seguenti:

  • Il sapere psicopatologico
  • L’epoché
  • La conoscenza in prima persona
  • L’immaginazione eidetica come avvicinamento al mondo dell’altro e come nucleo narrativo
  • La conoscenza in seconda persona e la funzione narrativa
  • L’antropologia fenomenologica e l’ethos della cura

Il sapere psicopatologico

L’importanza della psicopatologia per la clinica e la psicoterapia è triplice: è il linguaggio comune che consente ai clinici di comprendersi vicendevolmente quando parlano dei loro pazienti; è la base per la classificazione e la diagnosi dei disturbi mentali; fornisce un contributo indispensabile alla comprensione delle esperienze personali dei pazienti. A ciascuna di queste finalità corrisponde una specialità della psicopatologia.

La prima, cioè la psicopatologia descrittiva, è la koiné della clinica dei disturbi mentali, e ha come scopo principale lo studio sistematico delle esperienze psichiche abnormi, il loro inquadramento e classificazione, la creazione di una terminologia valida e affidabile che consenta di individuarle, riconoscerle e parlarne (Jaspers 1913).

La seconda, cioè la psicopatologia clinica, è lo strumento pragmatico per individuare i sintomi rilevanti per la diagnosi nosografica; essa consente al clinico di restringere l’ambito dell’indagine a quei fenomeni abnormi che sono utili per stabile una diagnosi affidabile. Essa fornisce le “boe di galleggiamento” (Schneider 1947) per orientarsi nella navigazione clinica.

La terza specializzazione è la psicopatologia strutturale; essa va alla ricerca di un livello globale di intelligibilità assumendo che la molteplicità dei fenomeni che si manifestano in un dato “caso” clinico sia una struttura dotata di un senso olistico e unitario. La psicopatologia strutturale va oltre la descrizione di sintomi isolati e l’uso di alcuni di essi ai fini della diagnosi nosografica. Una sindrome, si suppone, non è una semplice collezione di sintomi. I sintomi che compongono una sindrome psicopatologica sono tra loro semanticamente coerenti. Lo scopo della psicopatologia strutturale – che è la base portante della psicoterapia fenomenologica – è comprendere il senso di un determinato mondo di esperienze cogliendo la modificazione caratteristica soggiacente che tiene tali sintomi significativamente interconnessi. Fenomeno-logia, infatti, deriva da leghein ta phainomena – raccogliere (leghein) i fenomeni in un tutto dotato di significato (logos).

La psicopatologia descrittiva è il fondamento del rispetto della complessità dell’altro, in quanto attribuisce valore e importanza clinica oltre che esistenziale ad ogni singolo fenomeno presente nel mondo della vita del paziente. Essa tuttavia mira al di là di questo confine: intende ricondurre la molteplicità a la complessità dei fenomeni a un organizzatore di senso. Questo è appunto lo scopo della psicopatologia strutturale. Essa si pone un obiettivo ambizioso ulteriore rispetto a quella descrittiva, cioè ricondurre – e non ridurre, come invece tenderebbe a fare la psicopatologia clinica – la complessità a una struttura. Questa petitio principii è stata sottoscritta nella storia della psicopatologia fenomenologica da autori quali Eugène Minkowski, Erwin Straus, Ludwig Binswanger, Hubertus Tellenbach, Henri Ey, Wolfgang Blankenburg e da tanti altri; essa porta in sé la sfida del senso, senza la quale il clinico si trova come il famoso re della fiaba: nudo. Come scrive il filosofo Ernesto De Martino, la ricerca del senso è la cifra fondamentale dell’umano e abdicare a questo compito significa abdicare alla propria umanità. Una tra le definizioni più folgoranti per comprendere il significato di struttura è fornita dalla storico della psichiatria George  Lanteri-Laura (1998): una struttura è “une entité autonome de dépendances internes”, una entità autonoma di dipendenze interne. Ciò che caratterizza una struttura è il suo essere dotata di senso. Si potrebbe dire che il senso sta nella struttura stessa, che è per questo “un’entità autonoma”. Secondo questa definizione, possiamo trovare il senso esplorando l’interno della struttura, senza coinvolgere elementi esterni a essa. Lo troviamo nel suo essere fatta di “dipendenze interne”, vale a dire di rapporti fra i suoi elementi. La psicopatologia strutturale, e la clinica fenomenologica che su essa si fonda, vanno alla ricerca del senso di una determinata struttura psicopatologica mettendo in rapporto reciproco i fenomeni che compongono la struttura stessa. Il senso emerge, per così dire, se si ha la pazienza di addentrarsi progressivamente nelle pieghe del discorso dell’altro: man mano che si dispiega la rete dei fenomeni, si fa più densa la trama dei rimandi tra i fenomeni stessi. Il senso è il frutto maturo di una “descrizione densa” (Geertz 1973).

L’epoché

La fenomenologia si propone come una metodologia critica, come una pratica intesa a rendere esplicite per entrambi gli interlocutori – il clinico e il paziente – le categorie che generano la propria personale visione del mondo. Lo scopo di questa esplicitazione o “messa in evidenza” dei propri personali preconcetti e pregiudizi, come base della propria personale visione del mondo, è rendere possibile sia al clinico sia al paziente vedere il mondo nell’ottica dell’altro, ovvero procedere nella direzione della “reciprocità delle prospettive”. È a partire da questa premessa che si può comprendere il ruolo dell’epoché.

Questa è una pratica che consiste nel mettere in evidenza, nel rendere esplicite e visibili, le pre-comprensioni e i pregiudizi – piuttosto che nella loro neutralizzazione. Il tipo di conoscenza che la fenomenologia clinica si propone di costruire non ha niente a che vedere né con l’intuizione di essenze, né con un oggettivismo fondato sulla eliminazione dei punti di vista soggettivi, né infine con l’unione mistica tra due soggettività finalmente libere dai condizionamenti delle proprie categorie determinate da vincoli biografici, storici e culturali. Viceversa, per costituire un orizzonte di senso condiviso, si ritiene necessario esplicitare le categorie in gioco nella genesi della propria (e dell’altrui) visione del mondo. Di questa esplicitazione è opportuno fare un uso critico, cioè un uso alla luce della consapevolezza esplicita della genesi storica di quelle categorie, e della esigenza di “allargarne e riplasmarne il significato mediante il confronto con altri mondi storico-culturali” (De Martino 1962). La nozione di etnocentrismo critico è una delle fonti ispiratrici di quest’uso dell’epoché: le categorie interpretative maturate nell’ambito della propria cultura sono irrinunciabili, ma al tempo stesso risultano efficaci soltanto se ne viene fatto un uso non dogmatico, limitando per quanto possibile la asimmetria epistemologica e il rapporto di potere tra “soggetto” e “oggetto” di conoscenza. L’incontro “alla frontiera” con un’alterità da decifrare si rivela reciprocamente utile alla conoscenza di sé e dell’altro. Questa duplice tematizzazione del “proprio” e dell’”alieno” è la premessa indispensabile per la conoscenza del mondo dell’altro senza illudersi di spogliarsi delle proprie categorie valutative, ma viceversa facendo la tara ai propri strumenti di interpretazione.

La conoscenza in prima persona

La conoscenza fenomenologica è insindacabilmente centrata sull’analisi della soggettività altrui, cioè sull’analisi delle esperienze altrui. La conoscenza “in prima persona” è un approccio rivolto alla soggettività altrui primariamente basato sull’empatia, cioè sull’immedesimazione con l’altro. Nella conoscenza in prima persona, la ricostruzione dell’esperienza dell’altro si compie “all’interno” del soggetto che lo esplora. Si tratta per lo più dell’effetto di un legame immediato, di tipo patico e percettivo, con il corpo dell’altro. In questo senso, l’empatia non è solo un’abilità cognitiva – che colma la distanza tra le esperienze di due individui stabilendo non solo una comprensione che si compie tramite la riflessione su quanto percepito e la successiva inferenza delle intenzioni altrui – ma si basa sul riconoscimento delle intenzioni e degli stati mentali degli altri attraverso l’identificazione con il corpo dell’altro (Rizzolatti, Sinigaglia 2006). La fenomenologia postula (e la psicologia dello sviluppo ha progressivamente mostrato) che l’intersoggettività sia fondata sull’intercorporeità (Merleau-Ponty 1945), cioè su un legame emotivo e pre-riflessivo tra il mio corpo e il corpo dell’altro. La conoscenza in prima persona chiama in causa non tanto un sapere traducibile in un insieme di proposizioni, né un algoritmo logico-deduttivo tramite il quale conoscere la mente dell’altro; quanto invece le emozioni, gli affetti, e il desiderio di comunicare. Il fondamento dell’intersoggettività “primaria” è, in questa prospettiva, l’interemotività.

Se la conoscenza in prima persona rappresenta una delle imprescindibili colonne dell’approccio fenomenologico, è altresì il caso di menzionarne i limiti: 1) essendo la pratica della conoscenza per empatia fondata sulla comunicazione preverbale tra corpi in azione ed “emozionati”, le differenze culturali nell’espressione delle emozioni, così come le peculiarità di costituzione dei corpi in talune aree psicopatologiche (si pensi ad esempio al rilievo delle cenestopatie nelle sindromi schizofreniche) sono di ostacolo alla piena comprensione dell’altro; 2) la conoscenza per empatia risulta inoltre basata su una psicologia di senso comune (che dà per scontata la presenza di schemi di significato e di azione sociale condivisi); per essa risulta incomprensibile tutto ciò che esula da tali schemi di comprensibilità socialmente condivisi: i fenomeni di maggiore rilievo psicopatologico (la follia) risultano per definizione incomprensibili; 3) è immanente all’empatia il rischio di proiettare nell’altro le nostre pre-comprensioni personali e idiosincrasiche, piuttosto che accogliere in sé gli stati mentali altrui (intenzioni, motivazioni, ecc.); 4) poiché il processo di ricostruzione del significato dell’agire altrui si compie in uno spazio “privato” e non intersoggettivo – “dentro” il soggetto che cerca di comprendere, piuttosto che nel dialogo tra due soggetti – questa a-dialogicità del comprendere in prima persona rende impossibile sciogliere il dilemma al punto precedente (comprensione o proiezione?).

L’immaginazione eidetica come avvicinamento al mondo dell’altro e come nucleo narrativo

La comprensione in prima persona consente (pur con le limitazioni sopra specificate) di cogliere alcuni fenomeni elementari del mondo della vita altrui, e di quello dei pazienti in particolare. Per altri fenomeni, che non si riescono a cogliere immediatamente, è necessario compiere uno sforzo di immaginazione – avvicinarsi al mondo del paziente tramite una serie di variazioni eidetiche, cioè mettendo progressivamente a fuoco un’immagine che faccia da ponte tra il mondo del clinico e quello del paziente; e tra il senso che quel frammento di esperienza assume nel mondo del clinico e in quello del paziente. Si tratterà, in seguito, di collocare questi frammenti in un formato globalmente significativo, cioè in una cornice narrativa.

Una narrativa clinica è la ricostruzione significativa delle esperienze del paziente, una semantizzazione di queste esperienze che sono vissute dal paziente come frammenti “traumatici”, cioè tra loro incoerenti, eterogenei e sconnessi, talora duri e taglienti, altre volte gelidi, o incandescenti, altre volte infine privi di significato o, viceversa, ipersaturi di un significato fossile e immodificabile. Raccontare questi frammenti di esperienza contribuisce a fluidificarli, renderli solubili, manipolabili, e quindi riciclabili, riassemblabili – come in un’opera di bricolage.

Molti pazienti sono prigionieri di un eterno presente, dell’incapacità di mettere insieme passato, presente e futuro. Se il trauma è ciò che mette in crisi ciò che la fenomenologia chiama “sintesi passiva”, cioè la capacità spontanea e preriflessiva di integrare passato, presente e futuro; il racconto è invece ciò che trasforma il tempo in qualcosa di vivibile. Il raccontare supplisce alla crisi della funzione implicita della sintesi passiva, alla frammentazione dell’esperienza, allo scompaginarsi della propria storia – e quindi dell’identità che sulla coerenza della storia è basata. Il racconto reintegra il senso e l’identità turbati dal trauma tornando a delineare ambiti precisi: le esperienze si distribuiscono in un ordine temporale, che le connette le une alle altre in una sequenza; dunque, ristabilisce un ordine semantico che a differenza di quello prodotto dalla sintesi passiva è attivamente generato. Il racconto affronta l’oblio, e quindi affronta la morte. Narrare è la capacità di reinserire nel flusso del tempo queste schegge di memoria che altrimenti resterebbero traumatiche. Il trauma altro non è che l’evento che ha perso la propria capacità di alimentare la dialettica dell’identità narrativa (Stanghellini e Rossi Monti 2010). La narrazione contribuisce alla trasformazione da frammenti sensoriali a oggetti di pensiero, da “cose” a parole. Con la narrazione si compie il processo tramite il quale la “cosa” si semantizza, il “nudo” viene rivestito di parole, il “crudo” inassimilabile diventa il “cotto” assimilabile della narrazione, il “grezzo” si trasforma in un artefatto “pensato”.

L’immaginazione eidetica si pone a ponte tra il grezzo dei frammenti di memoria episodica e quell’artefatto semantico necessario per la vita che è la narrazione. Una volta operata l’epoché, cioè messo in evidenza onde ridurne l’ingombro epistemico, il residuo di conoscenze teoriche psicopatologiche (sintomi, sindromi, percorsi di comprensibilità genetica, ecc.) che fin qui lo hanno accompagnato per avvicinare e tentare di comprendere il mondo della vita del paziente; il clinico si accinge a interrogare attivamente le proprie capacità immaginative. Lo scopo è che i frammenti di esperienza del paziente e le sensazioni vaganti del clinico prendano corpo, e si incontrino. Che inizino a costituirsi elementi intermedi tra i frammenti traumatici e i contenuti di pensiero più simbolizzabili che, in seguito, daranno luogo ad una narrazione. Questi elementi sono, appunto, immagini – eida – tramite le quali cominciano plasticamente a prendere forma nel clinico le esperienze del paziente e le proprie emozioni ad esse collegate. Queste immagini cominciano a “fermare” e rappresentare quelle emozioni fluttuanti che si formano nel clinico scaturite dai racconti del paziente. Poi ad aggregare queste sensazioni, infine a sintetizzarle in un nucleo di racconto dotato di significato, che sarà elaborato nel ciclo dialogico della conoscenza in seconda persona.

La conoscenza in seconda persona e la funzione narrativa

L’approccio in seconda persona differisce da quello in prima persona perché va alla ricerca di una comprensione che si compie nello spazio intersoggettivo e tramite il linguaggio, ponendosi come obiettivo un tipo di conoscenza dialogica condivisa dal clinico e dal paziente. E’ un tipo di conoscenza centrata sul linguaggio, presupponendo che l’uomo sia un essere la cui esistenza è fondata nel linguaggio, il cui mondo è composto di enti linguisticamente strutturati e le cui esperienze si danno fondamentalmente nel medium della parola. La conoscenza in seconda persona, inoltre, è fondata sul “noi”, e il suo presupposto epistemologico è la co-presenza e l’avvicinamento degli orizzonti degli interlocutori. Uno degli aspetti caratterizzanti la conoscenza in seconda persona è che essa dischiude, parallelamente alla comprensione dell’altro, la comprensione di sé.

L’esigenza di una prospettiva di seconda persona sulla soggettività altrui è stata sentita dapprima soprattutto nell’ambito degli studi etnografici, sulla spinta della consapevolezza critica che le categorie interpretative maturate nell’ambito della propria cultura sono irrinunciabili, ma al tempo stesso risultano efficaci soltanto se ne viene fatto un uso non dogmatico, limitando per quanto possibile la asimmetria epistemologica e il rapporto di potere tra “soggetto” e “oggetto” di conoscenza (De Martino 1962). Analogamente, la patologia mentale può essere conosciuta tramite una ricostruzione condivisa dei suoi significati, che è al tempo stesso comprensione e cura. Nella conoscenza in seconda persona, infatti, ciò che conta è fra soggetto e soggetto. La validità di questa ricostruzione del senso di un’azione o di un’esperienza è funzione della sua coerenza. Si va alla ricerca sia una coerenza interna, sia di una coerenza duale, sia di una esterna.

La coerenza interna di una narrativa risulta dal senso unitario che assumono i diversi frammenti dell’agire o dell’esperire dell’altro visti in una visione d’insieme, nella loro globalità – come si è illustrato nella sezione dedicata alla psicopatologia strutturale. Quanto più un frammento risulta connesso significativamente ad altri frammenti, quanto più ciascun frammento “illumina”, getta luce sugli altri frammenti, tanto più si esalterà la coerenza interna di una narrativa.

La coerenza duale (intersoggettiva) è il grado di convergenza tra la narrativa del clinico e quella del paziente. Comprendere, in una prospettiva di seconda persona, significa esattamente negoziare e co-costruire significati condivisi. La prospettiva di seconda persona cerca di mitigare le asimmetrie epistemologiche di altri paradigmi di conoscenza dell’altro, in particolare il loro affidarsi e confinarsi in uno spazio di conoscenza in cui i processi conoscitivi del soggetto si impongono ad un oggetto di conoscenza, e le categorie dell’uno non si confrontano con quelle dell’altro. Nella conoscenza in seconda persona la validità di un costrutto narrativo è funzione del grado di accordo tra partner.

Una narrativa è, infine, la ricostruzione significativa della propria esperienza che è anche basata su schemi di significato generali, culturalmente condivisi. In questo senso, ogni tipo di comprensione è non solo intersoggettivamente, ma anche culturalmente mediato. Essendo una narrativa la forma linguistica attraverso la quale esperienze e credenze sono organizzate e comunicate, essa deve soddisfare alcuni vincoli culturalmente determinati, come ad esempio certi schemi di significatività dell’azione. La coerenza esterna, o significatività condivisa, è il grado di radicamento di una narrativa in questi vincoli culturali.

Naturalmente, il paradigma di seconda persona non è anch’esso immune da critiche. Il paradigma dialogico, come si è visto, non rinuncia né alla coerenza interna né a quella esterna; anzi, ne enfatizza alcuni aspetti e rischia di applicarli acriticamente (e utopisticamente) in ossequio a due petitiones principii tutt’altro che certificate: 1) Si corre il rischio di dare per scontato che la soggettività altrui, e la soggettività umana in generale, goda del carattere a priori della coerenza. Affinché il criterio epistemologico della coerenza interna tenga, è necessario dare per scontato che esso sia modellato sulla presunzione della coerenza come carattere ontologico, intrinseco all’esistenza umana. Dovendo rinunciare ai saperi forti (come quello esplicativo, ad esempio), e affidandosi – onde mantenere un impianto di verificabilità empirica dei propri costrutti – al paradigma narrativo, il sapere in seconda persona non può rinunciare all’idea che l’esperienza e l’agire umani siano intrinsecamente coerenti: in quale altro modo ancorare la validità dei propri costrutti se non al criterio della coerenza interna, in assenza di criteri esterni di vero-falsità? 2) Si rischia, inoltre di dare per scontato che la coerenza esterna, da raggiungere tramite il confronto tra i rispettivi significati e la negoziazione tra i reciproci costrutti, sia un dato, piuttosto che un compitoda realizzare. Un ipotetico, e auspicabile, umanesimo psicopatologico non deve assumere che l’equivoco tra singole persone, tra mondi e tra culture diverse sia un epifenomeno, cioè che l’unità dell’umano costituisca un presupposto da svelare, piuttosto che un edificio da costruire. La comprensione è una realtà condenda, i suoi esiti incerti e imperfetti appartengono, ancor più che alla sfera dell’epistemologia, a quella dell’etica della responsabilità.

Infine, la clinica fenomenologica non pone la coerenza narrativa come un obiettivo da raggiungere, bensì come un limite verso cui tendere. L’obiettivo è, piuttosto, apprendere quell’esercizio di mediazione tra la propria e l’altrui visione del mondo che la ricerca della coerenza intersoggettiva impone. Per questo si può dire che l’esercizio dell’epoché (in quanto esplicitazione dei propri preconcetti e pregiudizi) è la via regia per l’esercizio della reciprocità delle prospettive, cioè per il riconoscimento del punto di vista dell’altro, il riconoscimento della sua legittimità, e quindi per l’acquisizione della capacità di assumere alternatamente il punto di vista proprio ed altrui. Questa capacità di oscillare (senza vacillare) tra il proprio e l’altrui punto di vista rappresenta il fondamento più solido della socialità.

L’antropologia fenomenologica e l’ethos della cura

Il concetto fondante l’antropologia che sta alla base della pratica fenomenologico-clinica è quello di eccentricità, ovvero la fondamentale doppiezza della condizione umana – Homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate. Il termine homo duplex venne originariamente coniato dal filosofo francese Maine de Biran (1804-1805) e successivamente sviluppato dalla cosiddetta antropologia filosofica del primo Novecento (Scheler, Plessner, Gehlen): l’uomo ha una doppia appartenenza, la prima relativa al suo essere parte della natura, la seconda per il suo inerire all’umanità. Siamo passivamente formati dalla natura (ma anche dalla nostra storia personale); la natura (e la storia) scrivono per noi la nostra agenda sotto forma di pulsioni, reazioni emotive innate o precocemente acquisite, abitudini, ecc. Ma l’uomo è anche, e “più fondamentalmente […] quell’essere che pone problemi e solleva domande, se non altro mettendo in questione le stesse fondamenta della società che gli impone di adattarsi senza strepito al suo sistema di lavoro, proprietà, legge, divertimento e cultura” (Ricoeur, 1950, p. 117).

Sia l’identità, sia la socialità, cioè i momenti costituivi dell’esistenza umana, non sono dati a priori, bensì realtà condende – compiti da assolvere, da costruire.

Il nostro essere “doppi” non consiste soltanto nell’essere sospesi in bilico tra natura e cultura; noi possiamo prendere in esame la nostra esistenza, trascendere il nostro modo di essere e interrogarci sulla nostra identità. Non soltanto poniamo domande sul nostro essere parte della natura (pulsioni) e della cultura (morale); mettiamo anche in dubbio la nostra stessa identità, l’essere quella certa persona costituita da un dato temperamento, storia passata e ambiente sociale presente. L’identità di un essere umano non consiste nell’essere monolitico, né nel suo permanere identico a se stesso nel corso del tempo (Ricoeur, 1984). Ciascuno di noi ospita in sé una quota di alterità, sotto forma di una pulsione repressa, ma anche di una possibilità di essere non realizzata, di un progetto accantonato ma mai disconosciuto o rinnegato, di un ruolo sociale in contraddizione con ciò che si sente essere la propria più autentica aspirazione. L’identità umana si compie attraverso una continua dialettica che coinvolge l’alterità che è in noi; una dialettica tra opposti che rende palese la nostra fondamentale e costitutiva doppiezza.

Si tratta di una doppiezza inevitabile, che può generare una sana dialettica tra opposti: tra essere e voler essere, tra essere e apparire, tra i modi distinti e divergenti in cui si vorrebbe essere. Da questa dialettica dipende la nostra vitalità, la storicità della nostra esistenza – cioè il dinamico compromesso tra fedeltà a se stessi e adattabilità ai contesti della vita sociale.  Questa dialettica, inoltre, si compie tra l’involontario, che dal basso preme sugli argini della coscienza per liberarsi e manifestarsi, e il volontario che cerca di plasmarlo e arginarlo; ma anche tra ciò che si è e ciò che invece si potrebbe o vorrebbe essere; e infine tra identità egoica (quello che noi sentiamo di essere) e identità di ruolo (il ruolo sociale che assumiamo, spesso con un certo distacco, nelle nostre transazioni quotidiane); o anche tra i diversi ruoli sociali che ci si trova costretti ad assumere in  certi momenti della nostra vita.

In questa prospettiva, la patologia non è il contrasto tra istanze contrapposte, bensì il dissolversi di questo contrasto. O per meglio dire: la patologia è il dissolversi della tensione dialettica tra tali istanze – e soprattutto il ritirarsi della persona dal compito di mediare tra esse. La patologia è il ritirarsi dall’esercitare una funzione di modulazione e integrazione fondata sulla propria capacità riflessiva. In ultima analisi, la salute non è un datum, ma un ethos che si fonda sulla capacità di appropriarsi del conflitto immanente all’esistenza, attribuendo un senso al disordine che lo caratterizza.  La salute, e la libertà che la connota, “è, in ciascuno dei suoi momenti, attività e ricettività. Costituisce se stessa ricevendo ciò che non produce: valori, capacità, e la mera natura” (Ricoeur 1950).

Modulare queste antonomie è il compito – la cura – fondamentale dell’esistenza umana, che è in essenza eccentrica e conflittuale. Ricoeur (1950) formula una teoria in cui mostra l’essenza conflittuale dell’esistenza umana, radicata nel principio del disordine e della indeterminazione dell’esistenza corporea, nell’incoerenza dei valori sociali, e nel contrasto tra queste due sfere dell’involontario che si collocano o si instillano al cuore dell’umano. Inoltre, si cerca di dimostrare il rapporto dialettico tra questi strati conflittuali primordiali dell’esistenza e la sfera del volontario – rapporto non di opposizione, ma chiasmatico di interpenetrazione, di reciprocità.

Questa prospettiva va a integrarsi ad altre antropologie ad essa affini, come quella freudiana, e quella scheleriana. Per Freud, la forma di libertà possibile nell’esistenza umana consiste essenzialmente nella presa di coscienza da parte dell’Io delle proprie pulsioni, delle proprie rappresentazioni e dei propri conflitti inconsci. Il potere dello spirito consiste nella sua capacità di esplorare l’inconscio, annettere l’inconscio alla sfera della coscienza. Il primato dell’Io è ristabilito tramite la presa di coscienza dei processi psichici inconsci; illuminando le regioni dell’inconscio e così allegandole alla sfera dell’Io cosciente. Per Scheler (1928), la libertà umana consiste nella facoltà di dire “no” alle pulsioni, e di utilizzarne l’energia (tramite il processo di sublimazione) per finalità “spirituali”. A differenza di Scheler, che attribuisce allo spirito solo il potere di opporsi all’organico, Ricoeur attribuisce alla sfera del volontario un potere positivo. La volontà non si limita a dire di no, ma nel processo della decisione si appropria dell’involontario, lo “sceglie”, e così facendo conferisce a esso significato. Per Ricouer, la libertà umana consiste nella possibilità di appropriarsi dell’involontario assegnando a esso un significato personale – inserendo cioè l’involontario in una narrativa personale dotata di senso.

Ogni uomo è distinto da se stesso, non coincide con se stesso; proprio grazie a questo scarto che è presente fra sé e se stesso può stabilire un rapporto con se stesso. In virtù della propria non coincidenza con se stesso, l’uomo è capace di riflessione, e di (ri)costruire la propria identità mediante una narrativa. Questa capacità riflessiva, conseguenza dell’eccentricità e quindi in ultima analisi della distanza dell’uomo dai propri istinti e dal legame univoco che essi determinano con l’ambiente, è la base della possibilità di farsi un’idea di sé, di costruirsi una propria rappresentazione di se stesso, di definire la propria posizione. Definire la propria posizione non è un lusso superfluo, ma un’autentica necessità biologica. Non essendo inserito in un proprio ambiente naturale, guidato dagli istinti; ma dovendosi costruire un mondo, l’uomo deve anche costruirsi un’immagine di se stesso. L’uomo ha la necessità di condurre la propria vita, determinare la propria posizione nel cosmo e nelle rete delle relazioni sociali, fabbricare una rappresentazione della propria identità. Questa necessità di costruire il proprio mondo e la propria immagine è una seconda natura per l’uomo, un bisogno così imprescindibile e vincolante da diventare il fondamento stesso della cura di sé[1].